Ammirando la maestosità della Galleria Umberto I di Napoli riesce difficile credere che sia stata edificata in soli 3 anni. Iniziata nel 1887 e terminata nel 1890, venne costruita negli stessi anni in cui, a Parigi, Gustave Eiffel realizzava la sua famosa Torre Eiffel.
La Galleria Umberto I di Napoli non aveva nulla da invidiare al monumento con cui rivaleggiava per bellezza e complessità della struttura.
I numeri di questa costruzione facevano girare la testa: lunghezza massima 147 metri, larghezza 15, altezza 34 e mezzo, il vertice della cupola a 57 metri.
In poco tempo la Galleria divenne il centro “mondano” di Napoli, anche grazie alla vicinanza ai luoghi più importanti della città .
Tutte le strade portano in Galleria
La Galleria Umberto I ha 4 ingressi: Via Toledo, Via Santa Brigida, Via San Carlo e Vico Rotto San Carlo.
L’ingresso principale si apre su Via San Carlo ed è composto da una facciata ad esedra che in basso è costituita da un porticato retto da colonne di travertino e da due archi ciechi, uno immette alla galleria e l’altro all’ambulacro.
Sulle colonne poste ai lati dell’arco di sinistra sono rappresentate in marmo le quattro parti del mondo.
La prima da sinistra simbolizza l’Europa ed è una figura di donna che con la mano destra impugna una lancia appoggiandosi ad essa e custodendo ai piedi una lapide con su scritto: Corpus Juris Civilis.
La seconda figura stringe una coppa e rappresenta l’Asia.
La terza ha i tratti del viso e l’abbigliamento dell’Africa, ha con sé un casco di banane e ha la mano sinistra appoggiata sopra una sfinge.
La quarta è una figura femminile che potremmo ritenere “colombiana” per la sua chiara allusione alle scoperte geografiche: la sua mano destra si posa su un fascio littorio e ai piedi ha un grosso volume di tavole geografiche con un globo terrestre su cui è scritto Colombo, in riferimento chiaramente all’America.
Nelle nicchie sovrastanti ci sono: a sinistra la Fisica e a destra la Chimica. L’arco che è posizionato alla destra dell’osservatore è simmetrico all’altro e sulle quattro colonne che lo affiancano ci sono quattro statue raffiguranti l’Inverno, la Primavera, l’Estate e l’Autunno.
Le stagioni alludono allo svolgersi del tempo e al passare inevitabile della vita.
Nelle nicchie sovrastanti ci sono il Genio della Scienza e il Lavoro. Alla fine c’è un gruppo marmoreo raffigurante il Commercio e l’Industria semisdraiati ai lati della Ricchezza. L’autore di queste opere è il carrarese Carlo Nicoli, sculture e allievo di Giovanni Duprè.
Un po' monumento, un po' centro commerciale
La Galleria Umberto fu innalzata affinché nel centro cittadino ci fosse uno spazio pubblico sufficientemente grande e al riparo dalle intemperie. La Galleria non aveva solo un importante funzione commerciale e sociale, ma anche monumentale: non poteva certo sfigurare rispetto alle bellezze artistiche presenti nei suoi pressi come il Maschio Angioino, la basilica di San Francesco di Paola, il teatro San Carlo e Palazzo Reale. In poco tempo nella Galleria si concentrarono botteghe, studi professionali, redazioni di giornali, uffici e atelier di moda fino a diventare uno dei luoghi dove accadevano i piccoli e grandi eventi della città di Napoli.
La Belle Epoque napoletana nel Salone Margherita
Nella Galleria non c’erano solo i locali per il commercio.
A pochi passi dall’ingresso di via Santa Brigida fu costruito un piccolo teatro sotterraneo decretato ad accogliere concerti da camera: il Salone Margherita, inaugurato il 15 novembre del 1890.
Dopo pochi mesi il quartetto d’archi di questo teatro prese a suonare le note frivole e allegre dell’orchestra del Varietà e il Salone Margherita legò indissolubilmente il suo nome alla famosa Belle époque napoletana.
Per più di vent’anni questo teatro fu la sede principale dello svago notturno dei napoletani, un ritaglio no direttamente nella Galleria Umberto.
Alle tentazioni di questo luogo di perdizione non rimasero insensibili neanche le menti più brillanti del tempo come Matilde Serao, Salvatore di Giacomo, Gabriele d’Annunzio, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Eduardo Scarfoglio e Francesco Crispi. Il
maggio del 1891 anche l’allora ventunenne Vittorio Emanuele, principe di Napoli, fu tra gli spettatori che affollavano il teatro.
Ma il Salone Margherita cominciò il suo declino alla vigilia del primo conflitto mondiale a causa anche della concorrenza di altri teatri.
Durante le due guerre il teatro non fece altro che vivere di ricordi senza mai riuscire a raggiungere nuovamente lo splendore del passato.
Nel corso della seconda guerra ospitò l’avanspettacolo, poi saltuariamente la “Canzone sceneggiata” e poi andò verso un inesorabile tramonto dei suoi fasti.
Tanti artisti in giro per la Galleria
I frequentatori diurni della Galleria erano gli attori e i professori d’orchestra in cerca di contratto.
Sempre in allerta, sedevano ai tavolini di un caffè vicino al Salone Margherita oppure si intrattenevano in gruppi in attesa di un impresario o di un confratello che portasse la notizia entusiasmante della formazione di una nuova compagnia teatrale o di un complesso strumentale di cui far parte.
Ancora oggi chi passa al mattino o nel tardo pomeriggio per la Galleria, si accorge che proprio al centro, dove c’è il pavimento con i disegni zoodiacali, si incontrano e contrattano strani personaggi, soprattutto manager di cantanti neomelodici o aspiranti artisti locali.
La casa degli SciusciÃ
La Galleria Umberto I è stata per 50 anni il regno degli Sciuscià , i lustrascarpe resi famosi dal film di Vittorio De Sica.
Il termine deriva dall’inglese “shoe-shine” (lustrascarpe) che nel film sono due ragazzini di Napoli che si guadagnano da vivere lustrando scarpe in giro, finché per una bravata non iniziano un percorso che li porta in carcere e poi sempre più in basso.
Nel dopoguerra napoletano gli Sciuscià avevano la loro sede prima nel bosco di Capodimonte e poi nella Galleria Umberto, dove per 50 anni hanno lustrato le scarpe ai clienti.
Le sedie per i clienti erano dei veri e propri tronetti di velluto scarlatto alti un metro e mezzo. Farsi lustrare le scarpe in Galleria era un rito, faceva parte delle abitudini chic dei gentiluomini, dei borghesi e di chiunque amasse camminare “luccicando“.
Strangolati dagli affitti impossibili e da una tradizione che poi è andata morendo, gli ultimi due Sciuscià hanno chiuso la loro attività qualche anno fa.